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Zehra ha final­mente espos­to a Istan­bul. La sua ulti­ma mostra in Turchia, in ter­ri­to­rio cur­do, a Diyarbakır, nel feb­braio del 2017, all’epoca del­la pri­ma usci­ta dal carcere, ave­va atti­ra­to l’attenzione delle autorità, che si era­no subito mosse alla sua ricer­ca. Sapete tut­ti che poi fu con­dan­na­ta a più di due anni di prigione.

Oggi, lib­er­a­ta, nomade in Europa, ma tut­to­ra a ris­chio se dovesse tornare in Turchia, è con­tenta, a suo modo, che alcune sue opere fat­te in carcere siano final­mente a Istan­bul. È emozionata. 

La prossi­ma set­ti­mana ricev­erà il pre­mio Hypa­tia al Fes­ti­val di Gen­o­va, in Italia, dove sarà di nuo­vo pre­sente. Anche se questo nomadis­mo somiglia alla lib­ertà, Zehra Doğan spie­ga in ques­ta inter­vista per­ché per lei ques­ta lib­ertà non è reale. 

Come per la sua espo­sizione a Milano, tor­na sulle sue lotte, sui suoi con­flit­ti, e su come lei li proi­et­ta nel­la sua arte.

zehra dogan istanbul exposition

Inter­vista di Evrim Kepenek, pub­bli­ca­ta su Bianet, il 9 otto­bre 2020

Zehra Doğan : «Non posso esserci, ma la mia arte è in Turchia»

Un’opera che ho real­iz­za­to in carcere, che rap­p­re­sen­ta il let­to di una pri­gione, sarà espos­ta. È com­pos­ta da un drap­po e da una fed­era. Sul­la fed­era c’è la frase che ho scrit­to usan­do i miei capel­li: «sono Zehra e non mi pen­to».

Sul drap­po, ho aggiun­to, a col­lage, un foulard che mi ave­va regala­to mia madre, sul quale ave­vo rac­colto del sangue mestru­ale. E ho dis­eg­na­to dei cor­pi di donne.

In realtà, in quest’opera, più che un mes­sag­gio politi­co, esp­ri­mo il fat­to che, in quan­to don­na, non voglio pen­tir­mi. Non ne pos­so più delle norme sociali imposte alle donne che cre­ano con­tin­u­a­mente il sen­so di col­pa per le cose che ci accadono. La soci­età ses­sista ci ha abit­u­a­to a far­ci dire cose come «se non fos­si usci­ta di notte, non sarei sta­ta vio­len­ta­ta», «se aves­si ascolta­to mio padre, non mi sarebbe accadu­to quel­lo che mi è cap­i­ta­to», «se non aves­si cre­du­to a quest’uomo e avu­to relazioni ses­su­ali, non sarei sta­ta deflo­rata», «non sono più vergine, cosa pos­so fare adesso?»

Sem­pre il sen­so di col­pa. Real­iz­zan­do quest’opera sul let­to del­la pri­gione, ho volu­to creare una metafo­ra. Quel let­to esiste anche ora che noi siamo fuori. Noi siamo sem­pre imp­ri­gion­ate a quel let­to. Le donne, anche all’esterno, si sdra­iano tut­ti i giorni su quel let­to. Quel let­to del carcere è ovunque. Il peg­gio è che quel let­to è anche nel­la pri­ma notte di nozze di tutte le donne. Ci sten­di­amo su di esso, aven­do pau­ra, con le ginoc­chia che tre­mano. È per questo che ho aggiun­to del sangue pro­prio in mez­zo al drap­po. Quel­lo è il mio sangue mestru­ale. È l’ho mes­so nel mez­zo del drap­po per­ché ricor­di il sangue del­la pri­ma notte di nozze. 

Nem­meno noi donne, quan­do abbi­amo il ciclo, vogliamo vedere il nos­tro sangue. Se qual­cuno, anche una don­na, vede una mac­chia di sangue che inavver­ti­ta­mente ha sporca­to i nos­tri pan­taloni, noi ci imbarazz­i­amo e chiedi­amo scusa. Queste maledette norme di genere ci han­no por­ta­to a dis­gustar­ci delle nos­tre stesse secrezioni. In tutte le reli­gioni, questo sangue è haram1. Una don­na con il ciclo non può entrare nei luoghi reli­giosi, non può cucinare e se lo fa è «insalu­bre». Per­ché è un haram. Come è pos­si­bile che questo liq­ui­do lega­to alla pro­cre­azione dell’umanità pos­sa essere con­sid­era così dis­gus­toso?

In pri­gione mi sono det­ta: «Si, in realtà, anche fuori da qui sarò con­dan­na­ta a questo let­to. Se non mi sbaraz­zo di ques­ta percezione, anche quan­do sarò lib­era, questo let­to mi perse­gui­terà. Sarò pri­gion­iera di questo let­to, come fos­si per­ma­nen­te­mente allet­ta­ta». Quan­do ero in carcere, vede­vo me stes­sa e le mie amiche come streghe. Erava­mo come maledette e get­tate là… Donne maledette che si oppon­gono e com­bat­tono una lot­ta per le altre donne e sono costrette a pen­tirsene. Io mi sbaraz­zo di quel let­to, rifi­u­tan­do­mi di essere incu­ba­trice di queste regole imposte, mi alzo facen­do scor­rere il mio sangue e dicen­do: «sono Zehra, mi alzo da questo let­to sen­za alcun rimpianto». 

Zehra Dogan Ne Posmanim

Le opere di Zehra Doğan, artista e gior­nal­ista, ritrovano gli appassionati/e di arte in Turchia, con la mostra inti­to­la­ta “Nehatîye Dîtın”, “Non-vis­to” in cur­do, [l’allusione è al tim­bro «vis­to» usato dal­la com­mis­sione cen­sura che con­trol­la tutte le let­tere in pri­gione]. La mostra, che com­in­cia il 9 otto­bre, al Kıraathane İst­anb­ul Ede­biy­at Evi, sarà vis­itabile per un mese.

Abbi­amo incon­tra­to Zehra Doğan, in occa­sione di ques­ta mostra. È pas­sato un po’ di tem­po. Ma ecco il risul­ta­to del­la nos­tra con­ver­sazione, che ha avu­to momen­ti di lacrime, ma anche scop­pi di risate…

Come stai?

Bene, ma sono un po’ stan­ca. Vado a Gen­o­va. Farò una per­for­mance lì, il 23 novem­bre prossi­mo. Sono in viag­gio per vedere il pos­to e per fare una riu­nione. Il 27 novem­bre, anco­ra a Gen­o­va, con Ai Wei­wei, parteciperò a una con­feren­za su «I dirit­ti umani e la resisten­za dell’arte». Sono in uno sta­to nomade perpetuo. 

«Sono in uno stato nomade perpetuo»

È da tan­to che sei par­ti­ta dal­la Turchia. Cosa provi? 

La sen­sazione di sep­a­rar­si da un pos­to è una ques­tione com­pli­ca­ta. Se par­ti con la volon­tà di par­tire è una cosa, se lo fai per obbli­go, è un’altra. Io sono par­ti­ta per­ché obbli­ga­ta. Se fos­si rimas­ta, avrei potu­to essere arresta­ta di nuo­vo, per altri dossiers con­tro di me. 

Per ques­ta ragione, essere par­ti­ta sen­za pot­er ritornare è dif­fi­cile. Ormai ho una vita da nomade. Sono due anni, se ci pen­so. All’inizio, mi sono instal­la­ta a Lon­dra, ma poi, con le mie attiv­ità di gior­nal­is­mo e arte, sono ritor­na­ta alla vita nomade. 

È uno sta­to nomade perenne e la sua fine è incer­ta. Potrebbe durare anco­ra molti anni. Sono cer­ta che se fos­se una mia scelta, questo peri­o­do potrebbe anche essere diver­tente per me. Ma ci sono giorni in cui vivo con la sper­an­za di risveg­liar­mi il mat­ti­no con il rumore del cuc­chi­aino che gira nel bic­chiere da the di mia madre, che si è sveg­li­a­ta pri­ma di me. 

Da quan­do ho las­ci­a­to la Turchia, sono da sem­pre in viag­gio. Mi ricor­do solo dei pri­mi 5 mesi, nei quali ho viag­gia­to per 15 diver­si luoghi, dove veni­vano inau­gu­rate le mie espo­sizioni, poi non mi ricor­do più niente di quel­lo che è accadu­to dopo. 

Che dif­feren­za c’è tra la tua arte in pri­gione e le tue creazioni fuori? 

Dal pun­to di vista del con­testo, non ci sono molte dif­feren­ze. Quan­do ero in pri­gione e anche adesso che sono fuori sono una per­sona che costru­isce la pro­pria esisten­za e che si esprime attra­ver­so il disegno. 

Quan­do guar­do dal pun­to di vista del mio mestiere e di ciò che pro­duco, mi vedo invece più pro­fes­sion­ale. Mi vedo come una Zehra, che sa quel­lo che fa e sa come deve far­lo. Ma dal pun­to di vista dei pen­sieri e del­la tec­ni­ca artis­ti­ca, è la stes­sa Zehra…

«La mia vita è politica, così lo è anche la mia arte»

Zehra Dogan

Sep­tem­bre 2020, Milan, Prom­e­teo Gallery.

Allo­ra, come è la Turchia vista dall’estero?

Purtrop­po, dal pun­to di vista dell’immagine è pes­si­ma. Ci sono delle cose che i media alleati al potere mostra­no. Erdoğan e le popo­lazioni che lo sosten­gono appaiono come la mag­gio­ran­za. Il popo­lo sem­bra essere sot­tomes­so alle idee di Erdoğan. Gli oppos­i­tori si com­por­tano come se tutte le oppres­sioni fos­sero iniziate dopo Erdoğan. Non smet­to mai di cor­reg­gere ques­ta visione. Nel pre­sen­tar­mi, mi definis­co «la don­na che è sta­ta sal­va­ta dal­la Turchia di Erdoğan». Ma tut­tavia la vicen­da non è dovu­to soltan­to alle politiche dei 15 anni di Erdoğan…

Si, esiste un seg­men­to di per­sone che sono vit­time pro­prio di Erdoğan. Ma questo riguar­da gli ulti­mi 15 anni. I cur­di e col­oro che lot­tano per il social­is­mo in Turchia, ave­vano prob­le­mi anche pri­ma di Erdoğan. La Repub­bli­ca non è costru­i­ta su un dirit­to di cit­tad­i­nan­za davvero uguale per tutti/e e la Turchia è un paese che ha prob­le­mi con la sua democrazia. Ci sono per­sone che ne sof­frono fin dal­l’inizio. Se si con­sid­era il prob­le­ma riducen­do­lo soltan­to gli ulti­mi 15 anni, si dà un’im­mag­ine molto incompleta.

Nelle con­feren­ze, tu par­li del­la tua arte e del­la tua espe­rien­za. Ci puoi riassumere?

Essendo una gior­nal­ista e essendo sta­ta in pri­gione, sono con­sid­er­a­ta una per­sona che fa polit­i­ca. Tut­tavia, espri­men­do­mi, rac­con­tan­do ciò che ho vis­su­to, ciò a cui ho assis­ti­to, viene fuori una diver­sa natu­ra polit­i­ca. Non voglio con­sid­er­are la mia arte come arte polit­i­ca. Potrei dire che fac­cio arte, essendo una per­sona politicizzata.

L’arte polit­i­ca e l’essere politi­ci non sono la stes­sa cosa.

Pen­so sia diver­so. Per questo, mi con­sidero come una per­sona politi­ciz­za­ta che pro­duce arte e che tro­va in questo un modo di dare espres­sione a una protes­ta. Non è come se fos­si sedu­ta su una bel­la poltrona bian­ca e dices­si «ecco, oggi, farò un quadro politi­co». Quel­lo che dis­eg­no e che dipin­go per esprimer­mi, quel­lo che par­torisco, riflette di per sé la polit­i­ca. Per una don­na cresci­u­ta in ter­ra cur­da, che ha trascor­so l’in­fanzia a Bağlar, il quartiere più ribelle di Diyarbakir, per una che ha vis­su­to a Sur, come potrebbe essere altrimenti?

Mi han­no crit­i­ca­ta per questo, tipo «le sue opere sono trop­po politiche»…

Sono una don­na che ha trascor­so tut­ta la sua infanzia lavo­ran­do, che è sta­ta proces­sa­ta a 16 anni per aver tira­to sas­si alla polizia. Sono una gior­nal­ista che è sta­ta imp­ri­gion­a­ta, che ha vis­to e vis­su­to tut­ti gli scon­tri a Nusay­bin. Come potrebbe non essere politi­co ciò che pro­duco?! Ho un’i­den­tità polit­i­ca, non sono una polit­i­ca. Sono sta­ta perse­gui­tata, sono sta­ta in pri­gione, non pos­so essere altro …

Forse, se fos­si solo una artista che ha appre­so via via le pro­prie conoscen­ze, con un’arte che è pro­gred­i­ta solo per se stes­sa … Ma io non sono questo.

Quin­di non capis­co quel­li che, anche dal­la Turchia, mi crit­i­cano definen­do­mi una “per­sona polit­i­ca”. La mia esisten­za è sta­ta polit­i­ca, non è nat­u­rale che lo sia anche la mia arte?

Visto” in entrata, “non visto” in uscita

Tor­ni­amo alla tua mostra in Turchia …

La mia mostra inizia il 9 otto­bre, al Kıraathane di Istan­bul. Mah­mut Wen­da Koyun­cu e Seval Dak­man ne sono i curatori/curatrici. Non pos­so andare in Turchia, ma la mia arte è lì. Spe­ri­amo tutti/e che ques­ta mostra ven­ga ripetu­ta ad Amed.

Abbi­amo inti­to­la­to ques­ta mostra “Görülmemiş” (Non Vis­to). Fa vedere le mie opere dal­la pri­gione. In ver­ità, queste non sono soltan­to opere mie, ma i frut­ti del lavoro col­let­ti­vo che abbi­amo svolto con le mie amiche, detenute insieme a me. In mostra ci sono abiti, scia­rpe, lenzuo­la che mia madre ha real­iz­za­to e che mi ha invi­a­to. Sono creazioni, ognuna delle quali tro­va un sig­ni­fi­ca­to e che ricre­ano la loro esisten­za come for­ma di espressione…

Ci sono ogget­ti inviati da mia madre, ma anche da mia sorel­la, dai miei avvo­cati, dai miei amici/che e anche quel­li che mi han­no regala­to le mie amiche in carcere. Tut­to ciò che viene dal­l’ester­no non può entrare nel­la pri­gione sen­za per­me­s­so, con il tim­bro “Görülmüştür” (Vis­to). E tut­to quel­lo che è usci­to da lì, lo ha fat­to in modo clan­des­ti­no. C’è un’in­tera filosofia in questo. Un ogget­to che ha rice­vu­to il “vis­to” las­cia la pri­gione in modo clan­des­ti­no, come “non vis­to”. C’è in questo una vera e pro­pria for­ma di espressione.

Zehra Doğan

Zehra en pleine créa­tion… “Nêrîn” (Regard). 240 x 155 cm. Sur tapis, acrylique, feu­tre, pas­tel sec. Juil­let 2020, Angers, France. Oeu­vre actuelle­ment exposée à Milan, Prom­e­teo Gallery. Pho­to : Naz Oke.

Come ti è venu­to in mente che il sangue mestru­ale potesse diventare una for­ma di espressione?

Negli anni Set­tan­ta, negli Sta­ti Uni­ti, alcune donne artiste han­no cre­ato delle opere in questo sen­so. L’han­no fat­to per rompere lo sguar­do machista. Io non l’ho fat­to con­sapevol­mente, per scelta, ma per obbli­go. L’idea è nata dal­la man­can­za di mate­ri­ali, a causa delle con­dizioni carcer­arie. È sta­ta l’im­pos­si­bil­ità di esprimer­si attra­ver­so un lin­guag­gio artis­ti­co ordi­nario. Non lo ho volu­to, è sta­ta una scelta obbli­ga­ta. È sta­ta la neces­sità di creare un’e­sisten­za nell’assenza…

«Ho provato la libertà in prigione e a Nusaybin»

Pen­so che nel­l’asse “arte, aut­en­tic­ità e lib­ertà” le tue creazioni siano aut­en­tiche e al tem­po stes­so sim­bo­leg­giano la lib­ertà. Tu cosa ne pensi?

Allo stes­so tem­po aut­en­tiche e libere… Sono ribel­li per natu­ra. Do mol­ta impor­tan­za al con­cet­to, che voglio che sia potente. Ognuna delle mie creazioni è un frut­to sin­cero, che por­ta den­tro di sé l’emozione nata da un lavoro di let­tura e ricer­ca. Ho delle forme di ricer­ca e dei meto­di per trovare ques­ta aut­en­tic­ità. Ogni per­sona è aut­en­ti­ca, ma la lib­ertà è qual­cosa di com­ple­ta­mente diverso…

Zehra Doğan by Hoshin Issa

9 octo­bre 2020, Suisse. Pho­to : Hoshin Issa.

Come don­na sono inti­ma­mente con­vin­ta che la lib­ertà non sia fare che ciò che vuoi.

Mi sono sen­ti­ta lib­era in pri­gione, a Nusay­bin2anco­ra di più. Per­ché ho sen­ti­to questo? Eppure era­no posti dif­fi­cili, c’er­a­no scon­tri … Ma lì ho sem­pre sen­ti­to di essere lib­era. Ci ho pen­sato molto a questo, anche dopo. Quan­do sono arriva­ta in Europa, non mi sen­ti­vo lib­era. Mi sen­ti­vo come se mi man­casse qual­cosa. Come se il mio cor­po fos­se cir­conda­to da filo spina­to, e quan­do mi muove­vo, le spine mi si pianta­vano nelle vis­cere. Ho capi­to molto tem­po dopo, che, a Nusay­bin, anche sot­to il fuo­co degli scon­tri, mi sen­ti­vo bene, per­ché pote­vo dire «no». Mi sono sen­ti­ta bene in pri­gione, dove sono sta­ta puni­ta per la mia arte, per­ché anche lì pote­vo dire «no, quel­lo che ho fat­to non è un crim­ine».

Ho inizia­to a sen­tir­mi bene in Europa, quan­do, anche qui, ho inizia­to a dire «no».

La lib­ertà è non fare quel­lo che non vuoi … Le mie opere non fan­no quel­lo che ti aspet­ti da loro. Nelle scuole d’arte si inseg­nano mod­el­li e con­ven­zioni. Ora, appun­to, è oppo­nen­dosi a tut­to questo che appare l’arte… Puoi essere aut­en­ti­ca e lib­era quan­do ti opponi alle percezioni maschiliste, alle nozioni convenzionali.

«Mi dà fastidio che mi criminalizzino»

Tu fai sen­tire la voce delle terre curde. Cosa vuoi dire?

Ques­ta mis­sione mi sem­bra trop­po pesante, non pos­so accettar­la. Io non sono sola; noi siamo un popo­lo. Io non sono che una per­sona all’in­ter­no di un col­let­ti­vo. Non mi do quel tipo di mis­sione. Pos­so dire sem­plice­mente questo: sto alla larga dal­l’at­tivis­mo politi­co, ma sono una per­sona politi­ciz­za­ta. Vor­rei che si sapesse questo e fos­se com­pre­so. Sono politi­ciz­za­ta e questo si riflette nel mio lavoro. Quel­lo che mi dà fas­tidio, non è di essere con­sid­er­a­ta politi­ciz­za­ta, ma di essere ridot­ta a una terrorista.

Dopo la mostra di Istan­bul, dove saran­no le prossime esposizioni?

Nei prossi­mi mesi, ho alcune mostre e con­feren­ze che sono molto impor­tan­ti per me e che saran­no molto istrut­tive. Ma gli Sta­ti Uni­ti mi con­sid­er­a­no “ter­ror­ista” e non pos­so ottenere un vis­to per andar­ci. Poi, altre espo­sizioni che mi ven­gono in mente in questo momen­to saran­no in Italia, Ger­ma­nia, Svizzera e Inghilter­ra, sono le prossime mostre che mi ven­gono in mente in questo momento …


Foto del tito­lo : © Mar­il­la Sicilia

Tradotto da Eliana Como
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